Dalla mente estesa al corpo diffuso

ABSTRACT
La tendenza recente di alcune correnti filosofiche considera i problemi fondamentali posti dallo studio della mente e della conoscenza in una prospettiva di separazione dalla scienza. Invece, alcuni dei quesiti classici ricevono nuova luce dalle mutate condizioni scientifiche e quanto sta accadendo nel dominio del brain computing può confermare questo asserto e la filosofia può essere ‘riscritta’ a partire da questo confronto.
Il problema generale che riassume i problemi a cui ci riferiamo riguarda la natura dell’artificiale, così come lo ha posto Simon (1969) sostenendo che la vita artificiale è “vita genuina” “anche se di materia diversa da quella che si è evoluta sulla terra” (trad. it p. 16). Questa duplice articolazione non esclude la considerazione dell’impatto che lo sviluppo tecnologico ha sulla vita umana (Minsky 1992; 1995), e dunque, oggi, il modo in cui le vite artificiali si pongono in relazione con la vita dell’essere umano. Da un punto di vista filosofico, cercare di descrivere questa relazione non può prescindere dalla domanda sull’orizzonte etico della vita artificiale, con attenzione al tema del soggetto dell’azione, dal momento in cui nuovi soggetti non naturali prendono spazio nella quotidianità dell’umano, e del mind-body problem, nella rinnovata e provocatoria discussione sulla mente estesa messa alla prova di nuovi artefatti tecnologici e dei big data. La questione fondamentale riguarda la persona, oggi dotata di protesi elettroniche artificiali e di protesi immateriali, quali i dati che genera, cede e utilizza negli ambienti digitali.

Giusy GALLO, Ricercatrice di tipo B, Dipartimento di Studi Umanistici, Università della Calabria – Claudia STANCATI, Claudia Stancati, Professore associato, Dipartimento di Studi Umanistici, Università della Calabria
L’articolo è frutto della collaborazione delle autrici. Claudia Stancati ha scritto il par. 1 e Giusy Gallo il par. 2.


Dalla mente estesa al corpo diffuso

1. La tendenza recente di alcune correnti filosofiche considera i problemi fondamentali posti dallo studio della mente e della conoscenza in una prospettiva di separazione dalla scienza. Invece è proprio a partire da un serrato confronto tra filosofia e scienza che la filosofia può essere ‘riscritta’; le mutate condizioni scientifiche e, in particolare, quanto sta accadendo nel dominio del brain computing, gettanonuova luce sui problemi capitali della filosofia quali il rapporto mente-corpo, la natura del pensiero, quella dell’identità, persino quello dell’opposizione tra libertà e determinismo.

La teoria della mente estesa (Clark, 2003, Clark&Chalmers, 1998) ha più di venti anni ma lo sviluppo delle computing sciences, di nuovi artefatti tecnologici e dei big data ha reso urgente un confronto approfondito con questa tesi, con uno slittamento dalla questione della conoscenza all’azione: le nuove tecnologie ridefiniscono criteri, modi luoghi e spazi dell’azione: “new technologies can alter, augment, and extend our sense of presence and of our own potential for action. Even when they fail, when they reveal themselves instead as loud, abrasive, opaque barriers between us and our worlds, we learn a little more about what really matters in the ongoing construction of our sense of place and of person-hood. In success and in failure, these tools help us to know ourselves” (Clark 2003, 125).

Pur senza giungere alle formulazioni apodittiche di Manzotti (2019) per il quale le persone non sono i loro corpi[1] dobbiamo tener conto di quei fenomeni quali, ad esempio, lo sguardo digitale o il corpo condiviso che sono stati evidenziati da Floridi per concludere che anche il corpo ha una natura “diffusa”[2].

I più recenti risultati delle ricerche dell’AI hanno messo alla prova un concetto che ha uno sviluppo secolare e certo non lineare, quello di personae ne hanno determinato l’ampliamento dell’orizzonte filosofico. Quali che siano gli strumenti cui affida la conoscenza e la sua espansione, quale che sia la potenza di calcolo, di comunicazione e di memoria che può esternalizzare grazie ad una nuova nozione di mente estesa e ad una nuova nozione di corpo, quella del corpo elettronico e diffuso, resta il problema della definizione di ‘persona’ e della sua interazione con le altre menti. 

In altra sede abbiamo vagliato diverse nozioni di persona, riferibili a livelli ontologici del tutto differenti e abbiamo vagliato la nozione di persona elaborata in ambito giuridico per verificare se essa possa, attraverso opportuni aggiustamenti, costituire uno strumento adatto per definire lo statuto degli artefatti robotici (Gallo Stancati 2020), per comprendere alcuni fenomeni dell’IA e categorizzare alcuni artefatti della robotica dobbiamo muoverci verso quelle nozioni di persona quale quella elaborata in ambito giuridico che si sono affrancate dal legame con la nozione di individuo naturale.

Filosoficamente parlando il concetto ha una storia assai lunga che incrocia anche la tradizione religiosa e il cristianesimo in modo particolare ed è approdato oggi al centro della discussione nella bioetica, nelle scienze cognitive, passando attraverso la sociologia da Mauss in poi[3].

Sovrapposto al problema della soggettività, strettamente legato al tema dei valori e della loro accettazione intenzionale, il concetto di persona è tutt’altro che chiaro nelle sue implicazioni epistemologiche ed etiche, si pensi alle differenze tra nozioni di persona elaborate da Singer o da Nussbaum, al ruolo che per questa definizione possono avere la capacità d’agire, la natura biologica, la biografia. Nonostante il fatto che nei dibattiti filosofici che hanno accompagnato i concetti di identità e di persona esistano più piani di discussione, possiamo concordare che l’atto di nascita della discussione moderna sul concetto di persona e di identità personale è costituito dal capitolo XXVII del Saggio sull’intelletto umano di John Locke (1690) che segna il passaggio dall’epoca teologica a quella psicologica: “suppongo che non sia soltanto l’idea di un essere pensante o razionale che costituisca l’idea di un uomo nel senso in cui l’intende la maggior parte della gente: ma di un corpo, foggiato così e così, unito ad esso (Locke 1690, ed. 1988: 371), un embrione e un adulto, un sano e un pazzo, in due tempi diversi possono essere lo stesso uomo la cui identità consiste “nella partecipazione alla stessa vita continua di particelle sempre fuggevoli di materia, unite allo stesso corpo organizzato in una successione vitale” (ivi: 367). Tramite la memoria la mente umana è in grado di ricostruire il flusso di ricordi e percezioni che collegano l’identità attuale dell’Io con sé stesso, nel tempo t, alla consapevolezza di sé dello stesso Io in un tempo precedente t’. La relazione di identità diviene così trasmissibile nel tempo nella mente di una stessa persona non solo tramite di un rapporto logico di eguaglianza, che in ogni oggetto biologico è confutato dalle leggi della nascita, della crescita, della maturazione e dell’invecchiamento, che ne causano un cambiamento continuo e irriducibile in schematismi logici, ma anche e soprattutto da un rapporto di ordine psicologico, veicolato dalla memoria stessa.

Il fondamento della persona viene dunque posto nella continuità di coscienza e nello stretto legame che essa ha con la memoria. Le critiche a questa posizione da Leibniz a Butler (Of Personal Identity 1736) fino all’odierno dibattito in ambito di filosofia analitica non sono mancate ed è impossibile darne qui conto[4]. Normalmente questo tema è stato affrontato in termini di identità diacronica, in particolare il punto di partenza da cui si muove l’argomentazione quando il concetto di identità sia applicato agli esseri umani è certamente quello dell’organismo umano e il punto di approdo è quello di una persistenza personale mantenuta, a prescindere dal fatto che sia o non sia conservato l’organismo umano di partenza .La vita del corpo e la sua persistenza sembrano tuttavia essere il perno di una definizione di persona anche quando non è intesa in termini fisicalistici e quindi non sovrapponibile a quella biologica di essere umano[5].

Quello che vorremmo qui far notare è che i diversi elementi di questa proposta lockeana (nelle sue varie e anche recenti versioni), ossia la coscienza e la memoria e il corpo, sono stati ridisegnati nel mondo digitale. La personaè oggi dotata di protesi elettroniche artificiali e di protesi immateriali, quali i dati che genera, cede e utilizza negli ambienti digitali. Se nel mondo antico si vendono schiavi e in quello ancora semifeudale di Gogol si posseggono ‘anime morte’, nel mondo di oggi l’oggetto del commercio sono i nostri dati.

Come scrive Floridi “La quarta rivoluzione ha portato alla luce la natura intrinsecamente informazionale dell’identità umana. È umiliante perché condividiamo questa nostra caratteristica con alcuni dei nostri artefatti più intelligenti (…) ciò non equivale a dire che siamo degli alter egodigitali, una serie di signori Hyde rappresentati dai nostri blog, email, tweet o indirizzi elettronici” (Floridi 2014: 109) non siamo neppure l’ombra dei dati ma “siamo testimoni di una migrazione epocale senza precedenti dell’umanità dallo spazio fisico newtoniano al nuovo ambiente dell’infosfera” siamo disinvidualizzati e reidentificati (ivi:111). 

2. Lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha portato a un mutamento nella progettazione e produzione di artefatti tale da interessare una possibile rideterminazione del modello della mente estesa. Sebbene la caratteristica principale di un artefatto risieda nella sua materialità, nel caso degli artefatti tecnologici, la combinazione di elementi materiali e immateriali ha favorito e incentivato la nascita di sofisticati artefatti tecnologici il cui “core” è un software embedded in un supporto materiale, che spesso cambia a seconda delle esigenze della persona che ne fa uso. La personalizzazione di servizi e oggetti tecnologici sfrutta i dati che generiamo, cediamo e riutilizziamo per ricevere un qualsiasi beneficio. È recente[6] la notizia della sperimentazione dell’utilizzo di smartwatch con funzione di ECG a beneficio della prognosi in caso di infarto: pur senza entrare nel dettaglio, non possiamo non evidenziare la possibilità che un oggetto apparentemente adatto a sportivi possa diventare in futuro – forse non molto lontano – un artefatto tecnologico salvavita, che nel corso degli ultimi decenni è notevolmente mutato, mantenendo solo incidentalmente la sua funzione originaria, ossia quella di misurare il tempo. Questi particolari oggetti, infatti, pongono chi li usa nel tempo, certamente, ma anche nello spazio, per via delle funzioni di geolocalizzazione spesso attive. Non dovrebbe stupirci, dunque, un futuro in cui le attività di ricerca di persone scomparse o ferite o affette da patologie severe, le quali hanno impatto sulla memoria, potrebbero utilizzare i dati scambiati da oggetti, i cui algoritmi, mediano, in un certo senso, la presenza dell’uomo nell’ambiente. In quest’ipotesi, un artefatto protesico può svolgere funzioni non solo biologiche ma anche cognitive, mostrando ancora una volta, almeno da un punto di vista filosofico e antropologico, la capacità dell’essere umano di essere naturalmente cyborg, ossia di combinare elementi naturali ed elementi artificiali in maniera assolutamente innovativa senza creare uno iato tra natura e cultura, poggiando su una rivalutazione del ruolo del corpo che oltrepassa la considerazione già riscontrata nelle ricerche della scienza cognitiva post-classica. 

Muovendosi dall’ipotesi della cognizione estesa all’ipotesi della mente estesa, Clark e Chalmers (1998) hanno aperto a nuove possibili idee di natura umana, tanto che il primo ha inaugurato una filosofia del cyborg, a cui abbiamo accennato sopra, quando ha provato ad approfondire il modello della mente estesa. Prima di provare a esaminare questo aspetto, sono necessarie due premesse. In primo luogo, l’ipotesi della mente estesa non esclude il funzionalismo: vale, infatti, la possibilità che un artefatto possa avere ruolo causale in un processo cognitivo. In secondo luogo, questo modello teorico supporta una visione ecologica della cognizione che tiene conto dell’interazione tra uomo e ambiente. 

Quale che sia l’artefatto tecnologico di cui disponiamo, il nostro essere in uno spazio – incluso la possibilità di muoverci al suo interno, manipolarlo, etc – pone nuovi quesiti alla teoria della mente estesa perché nuove sono le possibilità che questi oggetti offrono. L’incipit del celebre articolo “The extended mind”, scritto alla fine degli anni Novanta, “Where does the mind stop and the rest of the world begin?” sembra possibile solo in un mondo di finzione che mette sullo stesso piano la mente e il mondo, ciò che è immateriale (o interno) e cioè che è materiale (o esterno).

 Oggi, invece, le ICT e lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale in qualche caso sembrano confermare l’intuizione che muove la domanda provocatoria e lo sviluppo della ricerca sposta la questione in termini generali sull’intelligenza umana e sull’identità.

In Being There: Putting Bran, Body and World Together Again, Clark puntualizza il rapporto tra intelligenza, corpo e ambiente: “We use intelligence to structure our environment so that we can succeed with less intelligence. Our brains make the world smart so that we can be dumb in peace! Or, to look at it another way, it is the human brain plus these chunks of external scaffolding that finally constitutes the smart, rational inference engine we call mind. Looked at that way, we are smart after all—but our boundaries extend further out into the world than we might have initially supposed” (Clark 1997: 180). È la rilevanza delle impalcature esterne a essere oggetto di attenzione e a predire, in un certo senso, la natura flessibile della mente estesa nel mondo digitale. 

L’esempio principe di Clark è il linguaggio, prodotto di una vasta rivoluzione tecnologica, che ha offerto all’essere umano la capacità di risolvere problemi utilizzando simboli esterni. L’idea di linguaggio come strumento e impalcatura rende conto di un’attività di scarico cognitivo sull’ambiente tale da ridefinire il mondo e scoprire il linguaggio che è “so ubiquitous it is almost invisible, so intimate it is not clear whether it is a kind of tool or a dimension of the user. Whatever the boundaries, we confront at the very least a tightly linked economy in which the biological brain is fantastically empowered by some of its strangest and most recent creations: words in the air, symbols on the printed page” (Clark, 1997: 218). 

La moltitudine di strumenti esterni alla mente diventa una estensione del cervello e del corpo creando tanti microcentri corporei che si muovono adattandosi l’uno all’altro – basta pensare all’esempio dello smartwatch che ho proposto sopra o all’utilizzo di un qualsiasi home device come Alexa che prontamente “ricorda” appuntamenti, “legge” messaggi, “avvisa” circa la consegna di ordini effettuati su Amazon e così via. Senza un corpo vivente, Alexa compie azioni che anche noi potremmo compiere anche noi sulla base di credenze o desideri. 

Perchè l’ipotesi teorica della mente estesa dovrebbe avere ancora rilevanza nel mondo digitale e perché dovrebbe essere di una certa importanza per il tema dell’identità? Intanto, dobbiamo chiarire un aspetto che fino ad ora è rimasto in ombra: il modo in cui risorse interne (nella mente) e risorse esterne (nell’ambiente) entrano in relazione è quello dell’abbinamento (coupling) creando un unico sistema finalizzato alla soluzione di problemi che hanno natura cognitiva, situazione che occorre quando si verifica il Principio di parità: “If, as we confront some task, a part of the world functions as a process which, were it done in the head, we would have no hesitation in recognizing, as part of the cognitive process, then that part of the world is(so we claim) part of cognitive process” (Clark e Chalmers, 1998: 8). 

In termini pratici, il principio che informa il modello della mente estesa è esemplificato dal celebre caso di Otto e Inga. Due persone si trovano a New York e desiderano vedere una mostra in un museo. Inga recupera l’indirizzo del museo dalla sua memoria. Otto, invece, ha un disturbo che non gli consente di recuperare informazioni dalla memoria e utilizza un taccuino, su cui aveva precedentemente annotato l’indirizzo del museo. Secondo Clark e Chalmers: “The notebook plays for Otto the same role that memory plays for Inga. The information in the notebook functions just like the information constituting an ordinary non-occurrent belief; it just happens that this information lies beyond the skin […] The moral is that when it comes to belief, there is nothing sacred about skull and skin. What makes some information count as a belief is the role it plays, and there is no reason why the relevant role can be played only from inside the body” (Clark e Chalmers 1997: 13). Questo modo di intendere la mente e la natura umana apre la strada a diverse reazioni critiche, come ve ne sono state nel corso degli ultimi decenni, e a cui gli autori, soprattutto Clark, non hanno mai risposto con fermezza. Tuttavia, è chiaro che un oggetto esterno per essere efficace attraverso il principio di parità e giocare un ruolo in un unico sistema cognitivo (possiamo dire, ibrido), deve essere disponibile quando necessario; deve essere accessibile come se fosse della stessa natura dei nostri corpi, ossia avere una matrice biologica o naturale; tutte le informazioni devono essere accettate automaticamente; infine, la credenza deve essere già stata accettata almeno una volta in passato dal soggetto.

Quest’ultimo criterio non ulteriormente discusso da Clark e Chalmers conduce a un tema filosofico classico, con cui anche l’Intelligenza Artificiale, negli esiti attuali che hanno a che vedere con l’etica e il libero arbitrio, forse dovrà misurarsi: la coscienza. Se è vero che esiste una cognizione estesa e che esiste la mente estesa, cosa possiamo dire della coscienza? Potremmo mai riconoscerci in una coscienza estesa quando riusciamo a sostenere l’idea di un corpo diffuso? Dopo aver dato un lieve assenso all’idea di cognizione sociale estesa e aver sfiorato, senza tornare, sul tema dell’io, senza un’apparente intenzione, se non quella di allontanare eventuali obiezioni, i due autori avviano un dibattito, che qui abbiamo problematizzato partendo dalla filosofia di Locke, con incursioni nella filosofia dell’informazione contemporanea.

«As with any reconception of ourselves, this view will have significantconsequences. There are obvious consequences for philosophical views ofthe mind and for the methodology of research in cognitive science, butthere will also be effects in the moral and social domains. It may be, forexample, that in some cases interfering with someone’s environment willhave the same moral significance as interfering with their person. And ifthe view is taken seriously, certain forms of social activity might be reconceived as less akin to communication and action, and as more akin tothought. In any case, once the hegemony of skin and skull is usurped, wemay be able to see ourselves more truly as creatures of the world (Clark e Chalmers 1998: 12).»

La conclusione aperta che mette in discussione il senso della socialità non chiama in causa in maniera esclusiva i processi cognitivi superiori ma include la possibilità di agire sull’ambiente e scatenare una retroazione sulla persona, quest’ultima inteso come centro d’azione. Se questo è vero, dobbiamo però considerare che l’ambiente in cui viviamo in quanto persone è popolato da una serie di oggetti che diversamente lo abitano. In questa condivisione di ambienti, secondo una visione ecologica, una serie di oggetti inanimati ma smart compie azioni assieme a noi (o al posto nostro). In molti casi, questi oggetti esistono nelle loro funzioni solo se abbinati e adattati ai nostri corpi umani, generando un modo del corpo che non è unico, solo, personale ma diffuso e distribuito.

Ancora una volta il quadro più generale in cui porre le questioni cui abbiamo accennato riguarda la natura dell’artificiale, così come lo ha posto Simon (1969) sostenendo che la vita artificiale è “vita genuina” “anche se di materia diversa da quella che si è evoluta sulla terra” (trad. it p. 16). La considerazione dell’impatto che lo sviluppo tecnologico ha sulla vita umana (Minsky 1995) ci porta non a cancellare i confini tra la mente e il mondo bensì a pensare il modo in cui le vite artificiali si pongono in relazione con la vita dell’essere umano, ci porta a vagliare con attenzione al tema del soggetto dell’azione, dal momento in cui nuovi soggetti non naturali prendono spazio nella quotidianità dell’umano. In conclusione se alla ‘mente estesa’ possiamo ormai affiancare il ‘corpo diffuso’, l’opposizione mente-corpo sembra perdere consistenza, così come quella tra esternalismo e internalismo; siamo sicuri che il cuore del problema non sia ormai da collocarsi fuori dalla dimensione cognitiva e dentro la dimensione etica e giuridica, quindi sociale, dell’esistenza della mente e del corpo comunque concepiti e nella relazione delle menti tra di loro, nella possibilità di conoscenze cooperative di cui il lavoro scientifico è il modello per eccellenza?

Da un punto di vista filosofico questo lavoro teorico non può prescindere dalla domanda sull’orizzonte etico della vita artificiale che ormai come abbiamo visto ridefinisce la nostra stessa identità.

[1] Riccardo Manzotti, La mente allargata. Perché la coscienza e il modo sono la stessa cosa, Milano Il Saggiatore, 2019.

[2] Luciano Floridi La quarta rivoluzione 2014 e ed. successive p. 87 e sgg.

[3] Michael Carruthers et al. (eds.), The Category of the Person. Anthropology, Philosophy, History, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. Marcel Mauss, Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di “io”, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 351-381.

[4] Carlo Gabbani, Per una epistemologia dell’esperienza personale, Milano Guerini e Associati 2007.

[5] Lucy O’ Brien, Self-knowing Agents, Oxford, Oxford University Press 2007.

[6] Cfr. Spaccarotella, Carmela, Polimeni, Alberto, Migliarino, Serena, “Multichannel Electrocardiograms Obtained by a Smartwatch for the Diagnosis of ST-Segment Changes”, Jama Cardiol., https://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/fullarticle/2770022?resultClick=24.


Bibliografia

  • Carruthers, Michael et al. (eds.), 1985, The Category of the Person. Anthropology, Philosophy, History, Cambridge, Cambridge University Press.
  • Clark, Andy, 1997, Being There: Putting Bran, Body and World Together Again, MIT Press.
  • Clark, Andy, 2003, Natural-Born Cyborgs: Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press.
  • Clark, Andy e Chalmers, David, 1998, “The Extended Mind” Analysis, 58: 7-19.
  • Floridi, Luciano, 2014, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina (trad. it. 2017).
  • Gabbani, Carlo, 2007, Per una epistemologia dell’esperienza personale, Milano, Guerini e Associati.
  • Gallo Giusy e Stancati, Claudia, 2020, “Could an Electronic Person Exist? Robots and Personal Responsibility”, in Giovagnoli R., Lowe R. (eds), The Logic of Social Practices. Studies in Applied Philosophy, Epistemology and Rational Ethics, Springer, https://doi.org/10.1007/978-3-030-37305-4_8
  • Locke, John, 1690, Saggio sull’intelligenza umana, Roma, Laterza, trad. it. ed. 1988.
  • Manzotti, Riccardo, 2019,La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa, Milano, Il Saggiatore. 
  • Mauss, Marcel, Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di “io”, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 351-381.
  • Minsky, Marvin, 1995, “Alienable Rights”, in Android Epistemology, Cambridge MA, MIT Press.
  • O’ Brien, Lucy, 2007, Self-knowing Agents, Oxford, Oxford University Press.
  • Simon, Herbert, 1969, The Sciences of Artificial, Cambridge MA, MIT Press.
  • Spaccarotella, Carmela, Polimeni, Alberto, Migliarino, Serena, “Multichannel Electrocardiograms Obtained by a Smartwatch for the Diagnosis of ST-Segment Changes”, Jama Cardiol., https://jamanetwork.com/journals/jamacardiology/fullarticle/2770022?resultClick=24

Biografia

Giusy GALLO è ricercatrice di tipo B di Filosofia e teoria dei linguaggi nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Si occupa di linguaggi dei nuovi media, del rapporto tra linguaggio e IA, della nozione di pratica indagata in chiave semiologica. Con Claudia Stancati ha organizzato il “Philosophy after AI” Symposium nella convention della Society for the Study of Artificial Intelligence and Simulation of Behaviour  (AISB), nel 2018 e nel 2019. Co-organizzerà anche l’edizione 2021 del Philosophy After AI Symposium.

Claudia STANCATI è professore associato di Filosofia del Linguaggio nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Ha pubblicato volumi e saggi sulla storia delle idee linguistiche dal Seicento al Novecento, si occupa di epistemologia delle scienze del linguaggio, di ontologia sociale, dei temi filosofici connessi all’uso delle nuove tecnologie e allo sviluppo dell’IA.