Josef BABUIN, “Human Intelligence: sono io che penso o è il mio cervello? Una breve sintesi storico-filosofica sul rapporto mente-cervello”

ABSTRACT

Nella cultura filosofica odierna ci troviamo difronte a un recupero del realismo: basta osservare l’interesse dilagante sulle neuroscienze e ciò che dicono nel rapporto mente-cervello. Si tratta però di un realismo tendenzialmente materialista perché riduce tutto a dei processi neurochimici che il cervello elabora, quasi fosse il principio di tutte le nostre scelte e operazioni, l’anima del nostro corpo. Sorge dunque la domanda fondamentale per la ricerca in questione: sono Io che penso o è il mio cervello? Propongo in questo breve articolo di mostrare ciò che hanno detto i filosofi su questo tema, nonché di arrivare a una sintesi finale.


Human Intelligence: sono io che penso o è il mio cervello? Una breve sintesi storico-filosofica sul rapporto mente-cervello

Nella cultura filosofica odierna ci troviamo difronte a un recupero del realismo: basta osservare l’interesse dilagante sulle neuroscienze e ciò che dicono nel rapporto mente-cervello. Si tratta però di un realismo tendenzialmente materialista perché riduce tutto a dei processi neurochimici che il cervello elabora, quasi fosse il principio di tutte le nostre scelte e operazioni, l’anima del nostro corpo. Sorge dunque la domanda fondamentale per la ricerca in questione: sono Io che penso o è il mio cervello? Propongo in questo breve articolo di mostrare ciò che hanno detto i filosofi su questo tema, nonché di arrivare a una sintesi finale.

Le prime testimonianze sul rapporto mente-cervello si possono far risalire agli antichi egizi tra il 2690 e il 2620 a.C., periodo in cui è vissuto un certo Imhnotep che, secondo un papiro datato intorno al 1700 a.C., si occupava di trapanare crani umani per poi agire sul cervello, ritenuto responsabile di disturbi comportamentali. L’uso di trapanare crani era pratica comune tra gli egizi, come lo dimostrano tanti reperti storici, ma i risultati quasi mai raggiungevano le finalità sperati: infatti, tale papiro menziona che solo due casi sono sopravvissuti dopo l’intervento, che oggi descriveremo come neurochirurgico.

La corrispondenza tra comportamento e cervello si fa più esplicita con il medico e filosofo greco Alcmeone di Crotone (V secolo a.C.), che elabora la teoria celebro centrica, poi vinta da quella cardio centrica sostenuta da Aristotele (IV sec. a. C.) e oggi ripresa in chiave materialista e riduzionista con le neuroscienze. Egli aveva fatto esperimenti sui pulcini e avrebbe così costatato che l’organo motore fosse il cervello, ritenuto «essenziale per la percezione»[1].

Il collega Ippocrate di Cos (450-460 a.C.), ritenuto il “padre” della medicina, si rifà alla sua teoria, definendo il cervello l’interprete della coscienza[2], come riporta scritto nel suo trattato sull’epilessia Male sacro, dove attribuisce la causa di questa malattia non al mondo spirituale, come allora si credeva, ma al mondo fisiologico. Tale affermazione è circoscritta in un contesto storico ben preciso: egli è allievo dell’atomismo di Democrito, dove tutto, compresa l’anima e gli dèi, si spiega materialisticamente attraverso gli atomi.

Per Ippocrate, quindi, i piaceri e i dolori, la serenità e la tristezza, il riso e il pianto, come pure il pensiero, il giudizio e il ragionamento, sono tutte attività causate dal cervello: l’uomo sarebbe quindi il suo cervello e non ci sarebbe bisogno di andare oltre il materiale per spiegare l’agire umano.

Oggigiorno si è consapevoli che stimoli fisici esterni, come nel caso di un tumore cerebrale, sono in grado di aumentare l’aggressività di una persona quando questo fa pressione sulla zona interna del cervello che regola tali stati emotivi. Il progresso della neuroscienza è di certo positivo per la conoscenza dell’uomo, ma affinché non rischi una deriva materialista deve collaborare con l’antropologia filosofica, che, a un piano meta-scientifico, dà senso e completezza alle scoperte.

Diremmo quindi che la scienza (intesa quella sperimentale) e la filosofia sono distinte ma allo stesso tempo non si escludono, o meglio ancora non può esserci l’una senza l’altra, come analogamente si può dire che causa e mezzo sono due cose ben distinte tra loro ma pure in stretto rapporto.

Riferiva, infatti, Platone che: «altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe essere mai causa[3]». In questo passo del Fedone, egli, nelle veci del maestro Socrate che dialoga con l’allievo Cebete, gli fa capire che, per esempio, non si può chiamare causa dello stare seduto l’avere un corpo, ossa e nervi in rapporto tra loro e che i loro movimenti producono tale posizione. Al più sarebbe da considerarsi più come una causa ausiliare, ma non la vera causa[4].

Socrate, quindi anche l’allievo Platone, non è soddisfatto delle risposte dei filosofi naturalisti su quale sia la causa (αἰτία) del fare una determinata cosa, che essi trovavano nella materia. I fenomeni e le scelte, invece, mostrano di essere strutturati secondo l’Intelligenza del giusto e del meglio e per guadagnare quel meglio o quel Bene in funzione del quale opera l’Intelligenza, non si può rimanere nel piano fisico e sensibile, ma occorre salire al piano dell’essere intelligibile o meglio metafisico[5], ovvero quello delle Idee, puri modelli eterni per mezzo delle quali le essenze delle cose si realizzano nel piano sensibile.

Su questa linea egli parla anche dell’anima in quanto connessa strutturalmente all’idea di vita[6], e pertanto non potendo accogliere la morte è immortale. Secondo Platone essa esisteva prima che noi nascessimo[7] e l’entrare in un corpo umano è per lei il principio della sua distruzione. La filosofia platonica è perciò dualista, l’io è l’anima, mentre il corpo è come una prigione. Questo è un dualismo dal quale l’uomo si deve liberare[8] e non una dualità naturale che invece si deve armonicamente integrare, come propone Tommaso d’Aquino alla luce della filosofia aristotelica.

Per Aristotele, infatti, il principio di tutte le cose non risiede nelle idee trascendenti (ἰδέα), ma nelle loro “forme” immanenti in quanto intelligibili (εἶδος), che, diversamente da quelle platoniche, non sono sostanze separate dai sensibili ma principi costitutivi della sostanza. Nelle sostanze materiali è la forma che determina la materia, la “informa”, cioè le dà l’essere e fa sì che una cosa sia tal cosa e non un’altra. L’anima umana sarebbe per lo Stagirita:

principio in virtù del quale viviamo, sentiamo, ci muoviamo ed esistiamo: di conseguenza dev’essere nozione [lat. ratio / gr. λόγος] e forma [species / εἶδος], non materia [ὕλη] e sostrato [subiectum / ὑποκείμενον].[9]

Ciò per cui viviamo è sia un principio formale, l’anima, sia un principio materiale, il corpo, ma l’anima è il principio primo per il quale viviamo, in quanto è atto (ἐντελέχεια, entelecheia) primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza[10], cioè è operatività immanente che sta alla radice di ogni operazione, mentre il corpo è ciò che riceve questo atto ed è quindi potenza. Il testo di Aristotele in questione sarà poi commentato punto per punto da Tommaso d’Aquino più di 1500 anni dopo, nella sua Sentencia Libri De anima, dove cerca di riproporlo con una struttura più chiara e logica[11].

Diversa è però l’interpretazione che ne dà la filosofia latina nella Roma del I sec. a. C., più diffidente verso la speculazione pura e più vicina ai problemi politici e quelli della vita pratica. Nonostante ciò, il pensiero greco ha avuto una certa influenza nella cultura romana, soprattutto lo stoicismo in Cicerone e in parte anche l’epicureismo per opera di Tito Lucrezio, che nel suo poema didascalico De rerum natura afferma l’anima umana avere una struttura atomica e quindi materiale, che svanirà con il corpo come l’acqua evapora con il caldo[12].

In lui l’anima viene intesa come un componente materiale che convive con il corpo, mentre la mente si trova in una parte fissa dell’uomo. Così, le nozioni di mente, anima e intelletto non vengono bene distinte e creano confusione ai più. Dovremmo allora specificare che noi oggi intendiamo mente come la somma delle facoltà cognitive superiori dell’uomo, intelletto (in greco νους, noûs) come la facoltà razionale spirituale dell’uomo mediante la quale la mente arriva a formulare i concetti. Inoltre, intendiamo per anima (νεύμα, pneuma) il principio vitale e spirituale di un essere vivente, comunemente ritenuta distinta da animo (ψυχή, psyche) che ha connotazioni relativamente più fisiche.

Un filosofo molto attento a dare ai termini il loro significato corrispondente è stato Tommaso d’Aquino che, come dicevamo poc’anzi ha commentato molte opere di Aristotele tra le quale il De Anima dove anche ha sviluppato meglio la questione aristotelica di come si distinguono nei viventi i diversi principi del vivere (vegetativo, sensitivo, intellettivo), che sono l’anima rappresentata dalla facoltà corrispondente[13].

L’essere umano, oltre ad avere i principi di anima vegetativo e sensitivo comuni agli animali, possiede anche l’intelletto che è un genere diverso e solo esso può essere separato non solo dalle altre parti dell’anima ma anche da qualsiasi organo corporeo. Perciò non può essere ridotto alla sua unione col corpo o con qualche organo corporeo come il cervello. La sua massima unione, infatti, avviene nell’anima umana e la sua massima separazione invece nelle sostanze separate (angeli e anime sussistenti dopo la morte).

Tommaso, inoltre, nella Summa Teologica dimostra che l’anima non è corpo in quanto è primo principio di vita[14], che l’anima umana è sussistente ed incorruttibile in quanto è principio di operazione intellettuale[15] e non si identifica con l’uomo perché questo è la composizione di anima e corpo[16]. Inoltre, essa è diversa da quella degli altri animali sensitivi che non hanno in sé stessi alcuna operazione propria e solo l’unione con il corpo permette loro di operare[17]. La loro anima, dunque, non è sussistente perché è generata (o edotta) dalla materia, mentre quella umana è creata da Dio[18]. Ciò vale anche quando sembra che alcuni animali abbiano alcuni comportamenti intelligenti, che però derivano dall’istinto stesso proprio della natura sensitiva di questi animali. Alcuni filosofi, per esempio Max Scheler[19], affermano che gli animali hanno una intelligenza pratica, caratterizzata per essere determinata dall’ambiente naturale che circonda l’animale, mentre l’uomo possiede lo spirito, cioè, la capacità di trascendere il mondo. L’animale è determinato dall’ambiente, mentre l’uomo può trasformare il mondo.

Pochi secoli dopo Tommaso, la filosofia comincia a rifiutare la ricerca di nozioni ultime e si rivolge alla conoscenza che sembrava più precisa e universalmente accettabile e vera, come la scienza empirica, e non cercò altro che dare un supporto teorico ad essa. 

Si parla quindi di verità, che per esempio in Cartesio (1596 – 1650) non si trova nelle cose ma piuttosto è qualcosa che noi attribuiamo. Per Cartesio il vero è tutto ciò che si concepisce con chiarezza e distinzione e per comprendere il mondo egli rifiuta la fisica aristotelica ed assume la matematica, le cui proposizioni sono evidenti. Come la maggioranza dei filosofi della modernità, aveva una visione meccanicista dell’uomo, nella sua anatomia[20] e nell’anima.

Come sapere se gli impulsi colti dai nostri sensi e dal cervello sono certi? Cartesio risponde che solo le idee chiare e distinte correggono gli errori perché sono vere, dimostrando così che l’uomo deve cercare la certezza (e non la verità), cioè lo stato soggettivo dell’uomo la cui mente si adegua alla realtà, non lo stato oggettivo.

Anche Leibniz (1646 – 1716) riprende la concezione di verità di Cartesio dicendo che la conoscenza perfetta, propria solo di Dio, è chiara, distinta, adeguata e intuitiva, mentre quella umana è per lo più simbolica e inadeguata, ma egli critica il suo meccanicismo in quanto presenta una insufficiente fondazione metafisica, riconoscendo: «che nei fenomeni della natura tutto avviene in modo al contempo meccanico e metafisico e che, tuttavia, la fonte della meccanica è nella metafisica»[21]. Così oppone a Cartesio una concezione organicistica del mondo naturale, perché secondo lui, la natura è un grande organismo vivente composto da un’infinità attuale di monadi, cioè sostanze semplici ed eterne, centri inestesi di forza e di attività, e per spiegare i corpi non si può ricorrere solo a grandezza, figura e movimento ma anche ad una mente incorporea, ossia ad un principio spirituale.

Egli da metafisico nonché da scienziato confuta la tesi che il pensiero sia generato dal cervello. Nella sua Monadologia al n° 17 afferma che se potessimo entrare nel cervello come in un mulino non si troverà che pezzi che si spingono vicendevolmente, ma nulla mai che possa spiegare una percezione. Ne consegue che è nella sostanza semplice, non nel composto o nella macchina, che bisogna cercarla[22].

Dunque, i pensieri sono il frutto di una particolare monade, l’anima o entelechia in quanto è di un corpo vivente[23], che, diversamente da quella degli animali dotata di sola memoria, possiede anche la ragione e per questo è detta Spirito[24].

Tuttavia, Leibniz, come Cartesio, considera l’uomo sotto i due aspetti distinti di anima e corpo perché in essi non ci può essere interazione, dato che le monadi che li costituiscono sono completamente indipendenti.

Anche per il filosofo Kant (1724–1804) l’anima interagisce con il corpo, al quale è unita in un rapporto di comunanza reciproca e il cervello è visto come mezzo, non causa dei pensieri. Dice infatti nell’introduzione alla Psicologia empirica che:

Nel cervello devono dunque esservi impronte di quanto si è pensato; nel pensare non può esservi qualcosa di corporeo, L’anima dunque affetta moltissimo il cervello mediante il pensiero. Il cervello veramente non elabora i pensieri, ma è solo la tavola sulla quale l’anima segna i propri pensieri. Il cervello è dunque la condizione del pensiero[25].

Kant parla di unione tra anima e corpo, ma non spiega come questa avviene né da dove trae origine. Inoltre, egli si riferisce al cervello come fosse una tavola rasa, concetto che aveva usato Aristotele per dire che l’essere umano nasce senza nulla di innato dal punto di vista conoscitivo. Nel suo sistema filosofico, la «persona è quel soggetto le cui azioni sono suscettibili di un’imputazione»[26], come anche «ciò che ha coscienza dell’identità numerica di se stesso in tempi diversi»[27]. Queste definizioni vengono criticate di neurodeterminismo dal filosofo Karl Popper e dal neurofisiologo John Carew Eccles, premio Nobel per la fisiologia e medicina, nel loro libro L’io e il suo cervello, edito nel 1977. Esse negherebbero a un bebè di essere una persona, perché ancora non sarebbe in grado di pensare, dunque non avrebbe mente, pur essendo un corpo umano in sviluppo. Eccles, dal canto suo, crede che mente e cervello siano due cose distinte, ma prima di arrivare alla distinzione bisogna partire dall’unità della persona:

recentemente è stato appena suggerito, specialmente da Strawson, che è un errore iniziare col supporre una distinzione tra corpo e mente; dovremmo cominciare, piuttosto, dalla persona integrata[28].

La soluzione di Popper al dilemma mente-cervello si configura come un dualismo interazionista vicino a quello platonico, non riuscendo però a spiegare le modalità d’interazione fra la componente fisica e quella mentale (esperienze percettive)[29].

A questo dilemma aveva già risposto la filosofia scolastica con il «quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur», o con le parole di P. Filippo Selvaggi, «la parziale soggettività della sensazione non ne elimina la vera oggettività, ma solo la “traduce” o “interpreta” soggettivamente»[30]. In ogni sensazione, infatti, ci sono necessariamente un soggetto senziente e un oggetto sentito, e di conseguenza ci sono un aspetto oggettivo e un aspetto soggettivo. Non si possono separare senza distruggere la sensazione stessa.  In questo consiste il cosiddetto “realismo critico” riguardo ai sensi esterni.

Alla domanda iniziale se fosse l’uomo a pensare o il suo cervello, abbiamo visto che il cervello non è né l’organo, né la causa del pensiero, ma solo la condizione necessaria e strumentale. Infatti, la conoscenza intellettuale è spirituale, mentre il cervello è un organo materiale, di conseguenza secondo il principio di causalità, cioè che la causa dev’essere proporzionata all’effetto, il cervello, in quanto materiale, non può causare il pensiero, che è spirituale. Quindi, la causa della conoscenza intellettuale non può che essere altra che una facoltà spirituale propria dell’anima, come lo è l’intelligenza. Il cervello è però uno strumento necessario alla pari dei sensi affinché l’intelligenza possa pensare: esso elabora in sensazioni e immagini gli impulsi trasmessi dai sensi, e da questo materiale, l’intelligenza si serve per formare i concetti grazie alla sua capacità di astrazione.

Da queste riflessioni possiamo capire come anima e corpo non solo sono in stretta comunicazione ma non possono essere l’una senza l’altra perché l’uomo è una unità di entrambe. L’anima umana, essendo spirituale, sussiste dopo la separazione con il corpo, ma rimane una sostanza incompleta finché non riceve il suo corpo che le era stato assegnato. Ecco che qui la fede può illuminare la filosofia con la dottrina della risurrezione dei corpi alla fine dei tempi.

[1] Aglioti S., Berlucchi G., Neurofobia – Chi ha paura del cervello?, Raffele Cortina Editore, Milano 2013.

[2] Ippocrate, Male sacro, XVII-XX, testo italiano in: Ippocrate, Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 19762.

[3] Platone, Fedone, 99 b.

[4] Cfr nota 106 in Platone, Fedone, a cura di Giovanni Reale, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna (RN) 19992, p. 298: «noti il lettore come qui venga ben delineata la nuova visione platonica della realtà, che lascia dietro di sé in modo netto la filosofia naturalistica».

[5] dal greco: Μετὰ τὰ φυσικά, «dopo i libri di Fisica», cioè «al di là delle cose fisiche».

[6] Platone, Fedone, 105 d.

[7] Cfr. Ibid., 76 e segg.

[8] Cfr. Ibid., 80 b – 84 b.

[9] Aristotele, De Anima, 414 a 10-15.

[10] Cfr. Ibid., 412 a 20-21.

[11] Cfr. Tommaso D’Aquino, Commentario al “De Anima”, n° 276.

[12] Cfr. Lucrezia, De rerum natura, vv. 425-444.

[13] Cfr. Tommaso D’Aquino, Commentario al “De Anima”, n° 262-278.

[14] Cfr. Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica,I parte, q. 75, a.1 co.

[15] Cfr. Ibid., a. 2 co; a. 6, co.

[16] Cfr. Ibid., a. 4, co.

[17] Cfr. Ibid., a. 3, co.

[18] Cfr. Ibid., q. 76.

[19] Cfr. L. Prieto, El Hombre y el Animal. Nuevas fronteras de la antropología, BAC, Madrid 2008, pp. 382-391.

[20] Cartesio, Meditazioni sulla filosofia prima, p. 733: l’uomo come una macchina e nervi come corde che «tirati nel piede tirano anche le parti interne del cervello alle quali sono collegati».

[21] Leibniz G.W., Lettera I a Mr. Remond de Montmort, 1714, in Opera philosophica, cit., I, p. 702: «que tout se fait mécaniquement et métaphysiquement en même temps dans les phénomènes de la nature; mais que la source de la mécanique est dans la métaphysique».

[22] Leibniz G.W., Scritti filosofici, a cura di Domenico Omero Bianca, Unione tipografico-Editrice torinese, Torino, p. 285

[23] Cfr. Ibid., p. 295

[24] Cfr. Ibid., p. 287

[25] Kant, Lezioni di psicologia, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 91.

[26] Kant,Die Metaphysik der Sitten (1797; tr. it. 1970, p. 26)

[27] Kant, Kritik der reinen Vernunft (tr. it. 1969, v. 2, p. 680).

[28] Popper K. R., Eccles J. C., L’ io e il suo cervello. Vol. 1: Materia, coscienza e cultura, Armando Editore, Roma 19923, p. 144.

[29] Eccles J.C, La percezione sensoriale, in «Il Tempo», 1980, p.15.

[30] Selvaggi F., Filosofia del mondo, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996, p. 84.


BIBLIOGRAFIA

  • Platone, Fedone, a cura di Giovanni Reale, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna (RN) 19992;
  • Aristotele, Dell’anima, in Opere, Vol. IV, Laterza, Roma-Bari 1983;
  • Cartesio R., Meditazioni sulla filosofia prima;Sesta meditazione,…, 732-736:
  • Ippocrate, Male sacro, testi italiani in Ippocrate, Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 19762;
  • Kant I., Lezioni di psicologia, Laterza, Roma-Bari 1986; traduzione italiana di Kants Gesammelte Schriften. Band XXVIII. Vierte Abteilung. Vorlesungen. Fünfter Band. Erste hälfte, Walter der Gruyter & Co., Berlin 1968, 221-301;
  • Leibniz G.W., Scritti filosofici, a cura di Domenico Omero Bianca, Unione tipografico-Editrice torinese, Torino;
  • Lucrezio T. C., La natura delle cose (De rerum natura), Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), Milano 19973;
  • SelvaggiF., Filosofia del mondo, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996;
  • Tommaso D’Aquino, Commentario al “De Anima” II, a cura di Adriana Caparello, Edizioni Abete, Roma 1975;
  • Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica– Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999;
  • Popper Karl R., Eccles John C., L’ io e il suo cervello. Vol. 1: Materia, coscienza e cultura, Armando Editore, Roma 19923;
  • R. Lucas Lucas, Spiegami la persona, Edizioni Art, Roma 2012.

Biografia

Josef BABUIN, Studente (jbabuin@legionaries.org)

Josef Babuin, 31 anni, è originario di Pordenone. Laureatosi in Economia e Commercio all’Università degli Studi di Trieste e poi Filosofia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum a Roma, ha lavorato per 3 anni negli Stati Uniti nella formazione e accompagnamento di adolescenti presso una scuola privata. Rientrato in Italia sta attualmente frequentando il baccalaureato in Teologia presso il medesimo Ateneo.